giovedì 11 ottobre 2012

La Principessa Gioffredi





Arrivava da Londra la principessa Gioffredi.
Tutti le baciano il cappello con il proprio saluto.
Tutti a guardarla diventano ciechi, i non vedenti vedono rondini lanciarsi a spiccare il volo dai neri rami degli immensi pini che sovrastano le mura di questo regno, sporco come i denti del destino, e poi le seguono mentre raggiungono fresche pianure di marmo per adagiarsi in un lento morire, in un frenetico copulare ed in un naturale essere il più inutile nulla, sul collo della principessa Gioffredi.
Prima del gradito arrivo hanno lucidato gli argini, hanno zittito quelli coi baffi troppo corti, hanno messo  da parte la mostarda ed hanno ucciso quelli con i baffi sporchi di mostarda.
Una sera non ho potuto evitare di camminare attorno ai loro cadaveri ed ho visto i loro baffi fino a convincermi che erano sporchi davvero.
Cartelli colorati pieni di amore saltano giù dalle dita molli delle donne di casa, innamorate di favole e di specchi troppo puliti per essere i propri, per trascurarne con gentilezza le rughe.
Per una settimana le guardie si sono esercitate a sparare sui polli ed ora sono così esperte che hanno deciso di smettere e si danno pacche forti sulla schiena, tanto che le divise hanno i buchi da cui gli si vede la pelle bianca maculata di ecchimosi.
 E poi c’è il duca che si è storto una gamba, correndo tra gli scogli sulla riva per non perdersi l’evento.
Qualcuno dice stesse pensando alla caccia che si è appena conclusa.
Lui era intento a raccogliere i semi dai campi dei poveri ed ora non possiede neanche una pelle di volpe o la carcassa di una beccaccia, uomo dagli svariati motivi, e si sforza sulla gamba offesa per urlare la propria rabbia, ora che, dopotutto non si sente di essere nient’altro e non più sé stesso, quella capanna da cui si mette in viaggio verso un orgoglio ferito, ma il viaggio verso il castello gli è impedito da una folla sempre più sudata e sempre più sedentaria.
Quando chiudono il cancello, le persone normali vengono spinte indietro, a marcire nuovamente nel loro fondo di mediocrità, tra gli stivali appiccicosi dei soldati feriti.
Chiudono con forza senza curarsi di chi si fa male, poi tutto ciò che rimane lo chiamano borgo, che per qualcuno è motivo di vanto.
Quelli che erano in piedi ora li trovi seduti, tutti sembrano aver dimenticato che da qualunque parte l’avessero guardata, lei aveva lo sguardo poggiato su chissà quale altrove di vapore.
E poi gira quell’altra storia, di quel fante che è morto senza gambe ma con una rondine tra le mani.
Il suo nome era John, aveva visto l’india ed odiava il rimorso, i compagni gli sopportavano la puzza dei piedi, lo raccolsero tra il letame dei cavalli schiacciato in un vicolo dal nome difficile, ma dicono ancora di lui che non è mai morto senza avere ragione.
Vittima incolpevole, martire dell’abitudine.