sabato 20 ottobre 2012

Coilìpe dai capelli di lana





Dicevano che Bragamago fosse il più grande dei pastori.
Possedeva un grosso gregge di pecore dalle dimensioni imponenti che vantavano un’insolita intelligenza. 
Non aveva bisogno di cani guardiani, visto che erano le stesse pecore che riuscivano a gestirsi tra loro per evitare di allontanarsi dalla fattoria, rischiando di perdersi o diventare preda di altre situazioni sconvenienti.
Alla fine del mese le pecore andavano da Bragamago e gli riempivano il magazzino di ingenti quantità di lana, che permettevano al pastore di vivere degnamente.
Tutto questo senza parlare del latte, per il quale le pecore si mungevano le mammelle l’una con l’altra. Esso veniva venduto in tutta la regione in grandi brocche, oppure trasformato in mozzarelle e caciotte delle più diverse varietà.
In cambio di questa devota collaborazione, le pecore avevano ottenuto dal loro padrone, oltre all’erba fresca e profumata del monte su cui sorgeva la fattoria, il privilegio di non essere usate come cibo, di morire di vecchiaia ed addirittura di ricevere una religiosa sepoltura.
Quando il pastore aveva bisogno di mangiare carne di pecora, esse andavano a catturare una di quelle che crescevano spontanee nei boschi dietro la rupe di Wlughijte, oppure le rubavano dai greggi di qualche pastore ubriacone irresponsabile, di quelli che secondo loro non erano in grado di avere a che fare con le pecore.
Bragamago era un uomo fortunato nella sua semplicità, però era un uomo sostanzialmente solo, per cui siccome aveva sempre vissuto tra le pecore, un pomeriggio amò la più bella tra di loro e ne nacque una figlia, Coilìpe, che tempo dopo divenne una graziosa ragazza dai capelli candidi e soffici come la lana.



Un giorno soffiò sul monte un vento cattivo.
Quando i lunigimagghi arrivarono nella fattoria di Bragamago, sua figlia Coilìpe dormiva nella sua torre con i tappi alle orecchie, perché quando le pecore si svegliavano ed andavano a bere il caffè, avevano la cattiva abitudine di far sbattere le porte in continuazione, ed a Coilìpe piaceva dormire fino a tardi.
I lunigimagghi non arrivarono con buone intenzioni, essi volevano occupare la fattoria di Bragamago perché la consideravano un posto strategico per dominare la rupe e la gola sottostante, così potevano attendere il passaggio dei fenofi e lanciargli dall’alto oggetti acuminati, liquidi bollenti e birra sgasata, a mo’ di spregio.
I lunigimagghi erano esseri sinistri che normalmente avevano l’aspetto di ragazzetti gracili e senza filetto.
Erano sempre in cerca della provocazione, però se per qualunque motivo si reagiva con la violenza al loro modo di fare fastidioso, essi si trasformavano in mostri possenti e spietati ed a quel punto non c’era grande possibilità di scampo.
Bragamago cadde nell’errore di affrontarli, perciò i lunigimagghi dopo aver cambiato le loro ingannevoli sembianze, ci misero poco a massacrare bestiame e pastore, malgrado i poveretti si difendessero con orgoglio.
Per fortuna, prima di capitolare, Bragamago vide in lontananza il montone Murgi, il quale tornava dal bagno dove si trovava mentre era capitato tutto, così riuscì ad urlargli di correre a svegliare Coilìpe e prendersi cura di lei.
Con la ragazza sulla groppa ancora alle prese con il suo atroce risveglio, Murgi fuggì velocemente attraversò i batuffoli di lana delle povere pecore uccise, che volavano lenti sull’erba del pendio.
E così in quel giorno crudele vi furono due nubi soltanto, candide e perdute, che riuscirono ad allontanarsi dall’infausto monte.



Coilìpe ed il montone Murgi, che tra l’altro si dà il caso fosse lo zio della ragazza, fuggirono nei boschi a ridosso dei laghi Farfumi, non sapendo che quella strada li avrebbe portati dritti dritti all’accampamento dei fenofi.
Il guerriero Zagrapalpe, che si trovava in acqua per farsi il bagno ed ad arricciarsi i peli del petto, riuscì per fortuna a bloccare in tempo il montone e colei che lo montava, perché conoscendo il carattere di colui che si trovava a guardia dell’accampamento, cioè Baltrahm, i due rischiavano di essere affettati in un solo colpo dalla sua potente ed enorme scure, come succedeva ogni volta a chiunque entrasse nell’accampamento troppo velocemente, e Baltrahm non era uno che chiede facilmente scusa.
Proprio il giorno prima avevano fatto una brutta fine due cinghiali ed un centometrista.
Coilìpe e Murgi vennero portati nella tenda di Efno, dove svelarono l’insidioso piano dei lunigimagghi ai generali e veniva servita loro una zuppa di cipolla rossa, zampe di orso e fiori di zucca, come da usanza fenofa per curare i cuori afflitti.
Decisero di prepararsi bene per far passare la carovana attraverso la gola, vennero costruiti dei baldacchini di fortuna con gli scudi dei guerrieri ed i sanitari dell’accampamento. Qualcuno con la barba particolarmente lunga se la impregnò di calcestruzzo e si costruì una tettoia personale, per sé e per la propria famiglia. Le barche vennero rovesciate e sotto vi si rifugiarono centinaia di donne, bambini, vecchi e uomini delicati, sotto la scure di Baltrahm invece se ne ripararono un’altra sessantina, viste le dimensioni dell’arma.
L’unico problema, semmai, era la testa calda di Baltrahm, ma decisero che gli avrebbero messo vicino un paio di ragazze che raccoglievano fiori e gli raccontavano le sue filastrocche preferite, oltre a quattro stambecchi, perché a Baltrahm piacevano molto gli stambecchi e lo avrebbero tenuto calmo di fronte alle sfrontate provocazioni dei lunigimagghi.



Nella gola le voci da imbecilli dei lunigimagghi riecheggiavano come urla di animali affamati e storpi.
Con le loro fesserie anticiparono l’immane lancio di oggetti di ogni sorta: calzini sporchi pieni di denti marci, coltelli da pesce arrugginiti, siringhe usate, cornici con foto di suocere, bollette da pagare avvolte intorno a pietre focaie, spugne piene di peli, banconote false, fiale piene di flatulenze esplosive, vomito di cane bollente, birra calda sgasata ed altri tipi di cianfrusaglie che farebbero innervosire chiunque le ricevesse addosso.
I fenofi erano quasi arrivati a metà del percorso e non c’era stato alcun problema, a parte quando un cerotto sporco di pus lanciato dall’alto stava quasi per colpire lo zoccolo posteriore destro dello stambecco preferito di Baltrahm.
Per fortuna non successe nulla perché la filastrocca che la ragazza bruna stava raccontando a quest’ultimo era arrivata al culmine narrativo, ciononostante furono attimi di grande tensione e tutta la carovana trattenne il respiro per qualche secondo.
Insomma, stava andando tutto bene, finché un lunigimaggo insultò pesantemente la ragazza in groppa al montone, e le lanciò un paio di mutande di lana che diceva aver ricavato dalla di lei madre e che aveva indossato nella notte passata per impregnarla della propria straripante incontinenza.
Coilìpe non ci vide più e saltò via dal dorso di Murgi, arrampicandosi alla roccia con i ferri da maglia dai quali non si separava mai, così in poco tempo arrivò sulla vetta dove afferrò il bavero del lunigimaggo. Ben prima che potesse colpirlo accadde l’inevitabile, la trappola aveva funzionato per l'ennesima volta.
I lunigimagghi da trasformati erano particolarmente rivoltanti, sembravano insetti giganti, alti quanto quattro o cinque uomini, con lunghe zampe pelose, un esoscheletro segmentato, un po’ di occhi sparsi sulla testa ed una volgare bocca bavosa. Per non parlare del fatto che indossavano discutibili mocassini gialli con fibbie griffate oppure sandali infradito decorati con strass.



Alcuni degli osceni esseri scesero agilmente nella gola per bloccare la carovana fenofa, ma i prodi guerrieri non si diedero indietro per difendere la propria gente e fu subito un combattimento molto duro.
Coilìpe si trovava tra le grinfie del lunigimaggo che l’aveva insultata ed era sparita oltre la roccia, sicché Murgi, preso dalla preoccupazione, galoppò su tutto il fianco della montagna per salire a salvarla.
Tre lunigimagghi avevano bloccato la scure di Baltrahm, non considerando che un uomo per quanto fosse un nano tra i giganti, se era in grado di maneggiare un’arma alta come sessanta uomini e dal manico largo come un bisonte, era sicuramente un osso parecchio duro da spolpare, nonostante lottasse a mani nude.
Colui che non si era ancora visto da prima dell'attacco, spuntò come una freccia dalle rocce del monte, dove era andato a prendere i nemici nei propri nascondigli.
Trasportava per il bavero un lunigimaggo e si aggrappò con le unghie di una mano alla parete opposta, mentre con l’altra mano prese a sbattere ripetutamente la testa del mostro sulla pietra robusta. Poi prese un secchio con della birra calda, la stessa che i lunigimagghi stavano lanciando ai fenofi, e gliela fece bere tutta d’un sorso, perché lui, Efno, certi affronti non li poteva accettare.
Quando quelli che trattenevano la lama della scure di Baltrahm se la fecero sfuggire, con essa e con l’energia liberata dalla trattenuta, il guerriero squarciò i tre lunigimagghi e tutto un fianco della montagna, da cui ne caddero molti altri che erano rimasti di sopra a lanciare massi.
Da quel momento i guerrieri fenofi si scatenarono poiché non si trovavano più in una posizione di svantaggio rispetto a quegli abomini fastidiosi, addirittura Zupèrtipe dette sfogo alla sua celebre pratica chiamata Khap-E-Khap, che consisteva nel prendere due nemici per le teste e sbattergliele l'una all'altra con uno schianto rimbombante.



In alto, nella zona nascosta che corrispondeva alla fattoria della buonanima di Bragamago, vi erano altri lunigimagghi, però di Coilìpe e Murgi non si era saputo più nulla, al che Zagrapalpe che era preoccupato per la ragazza, verso la quale provava anche delle simpatie, chiese a Vaqnoke di essere lanciato sulla montagna.
Vi trovò la ragazza e il montone sulla torre, con uno stuolo di lunigimagghi che vi si stavano arrampicando, ad allontanare i quali Murgi ci provava a via di sputi.
Zagrapalpe raccolse da terra uno di quegli spiedi molto lunghi con cui i lunigimagghi si erano fatti gli arrosticini la sera prima, e siccome era un giovanotto molto atletico, si aiutò con esso a saltare sulla cima della torre, però proprio mentre stava per raggiungerla, un mocassino di cattivo gusto lo colpì sotto il mento ed il guerriero si trovò sbalzato di nuovo verso la rupe, dal lato più ripido.
Coilìpe, che nel frattempo aveva recuperato dalla sua stanzetta i gomitoli migliori, lavorò velocemente a maglia una sciarpa lunghissima alla quale Zagrapalpe si aggrappò, salvandosi la vita.
Così Coilìpe ebbe un’intuizione, risalì in groppa a Murgi ed i due si lanciarono sul fianco della torre.
Mentre Murgi continuava a sputare a destra e a manca, la ragazza fece in fretta un enorme maglione con cui imbrigliò tutti i lunigimagghi per le zampe ed essi non poterono più muoversi, rimanendo impotenti a contorcersi ed imprecare.
Quando giunsero gli altri fenofi, a tutti i lunigimagghi venne fatta bere la birra calda prima di essere uccisi.
Efno ordinò che uno di essi venisse lasciato in vita, poi chiamò tutti i bambini e li fece divertire colpendo il mostro a calci e pugni. Qualcuno attaccò la propria gomma da masticare nel naso del lunigimaggo e qualcun altro vi ci fece anche la pipì sopra, tra il divertimento degli adulti tutti intorno, specialmente Baltrahm che si faceva grasse risate.
Poi lo liberarono ed Efno gli disse: “Va’ da Venomenovf e digli che la prossima volta ci mandasse contro dei lunigimagghi più forti”.
E così, assieme a Murgi e Coilìpe, i fenofi ripresero la marcia verso la riconquista del proprio perduto regno.

venerdì 12 ottobre 2012

Barbagianni intimoriti dalla crisi







 Polipo

Avrebbe dovuto spolverarsi le scarpe
qualora la necessità di uscire avesse premuto
come un calzascarpe a spingere il tallone
per cavarlo dalla poltrona alla quale era ancorato
con sporadici capelli ad agitarsi sul cuoio
vibrando alla luce delle stelle,
quelle stelle sotto le quali si balla.
Ma la Milly Carlucci dei suoi fornelli
aveva un altro uomo che sapeva stare in piedi
anche quando non fingeva di lavorare.
lo frequentava tra un minestrone
e il vapore delle camicie.
Un angolo di mare diverso, in cui nuotano le meduse,
se solo lui la volesse andare a cercare...
Anche i polipi hanno delle speranze.



Un uomo distrutto (parte III)

Sono un uomo distrutto,
la sorte mi ha fatto in mille pezzi.
Ne ho trovati alcuni solo perché il vento me li ha riportati,
ma se fosse per me, con la pigrizia che mi ritrovo…
Ah ecco, un dito! Quasi del tutto intero!
Un mezzo occhio morsicato da un topo!
Un dente!
L’intestino tenue, l’ho ricomposto quasi tutto.
Ecco, siamo quasi a 780 pezzi,
ma molti sono trascurabili,
come ad esempio quelli morsicati dai topi.
Cosa manca ancora di importante?
La scapola sinistra e l’anima.
Oddio no…
La scapola sinistra temo proprio che non la troverò mai.



Passeggiata in centro

Stavo facendo l'ennesima passeggiata in centro e la scarpa mi finì dentro il burrone.
Mi disperai realmente, era meglio non avere nessuna scarpa che averne una sola, tra l’altro al piede sinistro, come avrei fatto a camminare per il resto dei miei giorni?
Mi feci coraggio con quattro bicchieri di grappa calda.
Presi un rametto da terra, ci soffiai sopra per pulirlo e cercai con esso di recuperare la scarpa dal burrone.
Un anziano signore dalla giacca blu, venne vicino a me e mi derise sulla faccia tanto forte che si tossì fuori le tonsille: “ma come diamine pretendi di prendere la tua scarpa finita in un burrone così profondo?”.
Me la feci sotto per l’umiliazione.
Un tizio grande e grosso che aveva sentito si avvicinò alla scena, scese da cavallo, mi tolse la scarpa rimasta e la gettò anch’essa nel burrone.
Mi diede uno schiaffo sulla nuca e disse: “ Vai a casa cretino e non tornare mai più!”
E così fu.



Un uomo distrutto (parte IV)

Sono un uomo distrutto.
Sono talmente preso dal fatto di essere un uomo distrutto
che ho dimenticato persino chi o cosa mi ha distrutto.
Che poi,
se sono un uomo distrutto
posso forse ancora considerarmi un uomo
se appunto distrutto?
E’ una cosa di cui gioire?
Il vino che diventa acido non si chiama più vino,
è aceto.
Ma almeno l’aceto serve a qualcosa
e forse è per questo che gli hanno dato un nome tutto suo.



Ideale

Una mela al giorno toglie il medico di torno.
Biancaneve poteva anche salvarsi,
ma sono i soliti capricci di quest’aristocrazia in declino:
sfiorare la morte per far colpo sul principe azzurro.
Intanto abbiamo un medico in più
che può andare a curare le epidemie in Africa
o che magari possa impegnarsi nella ricerca contro il cancro.
Mentre il principe azzurro, per quel che sappiamo,
va con Biancaneve, con Cenerentola e con la Bella addormentata.
Una volta chi conosceva i detti era considerato saggio.



giovedì 11 ottobre 2012

La Principessa Gioffredi





Arrivava da Londra la principessa Gioffredi.
Tutti le baciano il cappello con il proprio saluto.
Tutti a guardarla diventano ciechi, i non vedenti vedono rondini lanciarsi a spiccare il volo dai neri rami degli immensi pini che sovrastano le mura di questo regno, sporco come i denti del destino, e poi le seguono mentre raggiungono fresche pianure di marmo per adagiarsi in un lento morire, in un frenetico copulare ed in un naturale essere il più inutile nulla, sul collo della principessa Gioffredi.
Prima del gradito arrivo hanno lucidato gli argini, hanno zittito quelli coi baffi troppo corti, hanno messo  da parte la mostarda ed hanno ucciso quelli con i baffi sporchi di mostarda.
Una sera non ho potuto evitare di camminare attorno ai loro cadaveri ed ho visto i loro baffi fino a convincermi che erano sporchi davvero.
Cartelli colorati pieni di amore saltano giù dalle dita molli delle donne di casa, innamorate di favole e di specchi troppo puliti per essere i propri, per trascurarne con gentilezza le rughe.
Per una settimana le guardie si sono esercitate a sparare sui polli ed ora sono così esperte che hanno deciso di smettere e si danno pacche forti sulla schiena, tanto che le divise hanno i buchi da cui gli si vede la pelle bianca maculata di ecchimosi.
 E poi c’è il duca che si è storto una gamba, correndo tra gli scogli sulla riva per non perdersi l’evento.
Qualcuno dice stesse pensando alla caccia che si è appena conclusa.
Lui era intento a raccogliere i semi dai campi dei poveri ed ora non possiede neanche una pelle di volpe o la carcassa di una beccaccia, uomo dagli svariati motivi, e si sforza sulla gamba offesa per urlare la propria rabbia, ora che, dopotutto non si sente di essere nient’altro e non più sé stesso, quella capanna da cui si mette in viaggio verso un orgoglio ferito, ma il viaggio verso il castello gli è impedito da una folla sempre più sudata e sempre più sedentaria.
Quando chiudono il cancello, le persone normali vengono spinte indietro, a marcire nuovamente nel loro fondo di mediocrità, tra gli stivali appiccicosi dei soldati feriti.
Chiudono con forza senza curarsi di chi si fa male, poi tutto ciò che rimane lo chiamano borgo, che per qualcuno è motivo di vanto.
Quelli che erano in piedi ora li trovi seduti, tutti sembrano aver dimenticato che da qualunque parte l’avessero guardata, lei aveva lo sguardo poggiato su chissà quale altrove di vapore.
E poi gira quell’altra storia, di quel fante che è morto senza gambe ma con una rondine tra le mani.
Il suo nome era John, aveva visto l’india ed odiava il rimorso, i compagni gli sopportavano la puzza dei piedi, lo raccolsero tra il letame dei cavalli schiacciato in un vicolo dal nome difficile, ma dicono ancora di lui che non è mai morto senza avere ragione.
Vittima incolpevole, martire dell’abitudine.



mercoledì 10 ottobre 2012

La crisi della vecchia




Avevo gli occhi talmente gonfi che nel tram una vecchia mi impazzì addosso.
Aveva la schiuma gialla che le inondava la bocca raggrinzita e il liquido che ne sgorgava riempiva le rughe sul suo viso come gli scoli di una turca.
Pensai che fosse troppo presto per scherzare, ma questa vecchia imbecille continuava a stupirmi con il suo atteggiamento privo di senno , urlava come fanno i maiali quando vogliono mantenere il proprio collo integro.
Poi si allontanò da me come se fossi ammalato di peste o se lavorassi nel recupero crediti e cercò di raggiungere il prima possibile l’uscita dal mezzo.
Così facendo, nel suo attacco d’isteria, non si curava della gente, perciò avanzava aggrappandosi a tutto ciò che trovava, strappando indumenti e capelli a chi le capitava sotto le unghie.

Io sapevo di avere gli occhi gonfi, ma non pensavo fino a questo punto.
Già pensavo ad un possibile profitto, come avrei fatto a guadagnare da questo?
Ve lo spiego io come avrei fatto, mi pregustavo già in uno di quei posti molto frequentati dalle vecchie, come ad esempio quei negozi di carrelli della spesa in stoffa con le ruote, di cui si sa che le vecchie non possono fare a meno.
Mi sarei messo sull’uscio a guardare male le vecchie, con i miei due spaventosi occhi, gonfi e rossi, e le avrei spaventate tutte senza curarmi della loro disposizione delle rughe o del colore della tinta, finché il negoziante non fosse uscito dal negozio per pregarmi di andarmene sull’uscio del negozio di un suo concorrente, mettendomi in mano una bella somma di denaro, tanto denaro, tipo trenta o quaranta euro.
Un sacco di soldi insomma.

Ma mentre sognavo, quel tipo con la testa sanguinante a cui la vecchia aveva strappato via mezzo scalpo mi si avvicinò e disilluse tutti i miei programmi.
Mi disse che la vecchia non si spaventava mica per gli occhi gonfi, no, ma per le orecchie a punta.
E fu così che intesi per la prima volta di avere le orecchie a punta e questo mi sconvolse non poco, un po’ come quando ho scoperto di avere i capelli rossi ed un conto in banca in svizzera, ma questa è un’altra storia.
Questa vecchia che aveva cambiato il mio destino impazziva ogni volta che vedeva qualcuno con le orecchie a punta, che disgrazia atroce per la poveretta e per gli incolpevoli pendolari che dovevano sovente assistere a certe scene.

Venni addirittura a sapere che anche il macchinista del tram aveva avuto le orecchie appuntite, quindi per poter conservare il posto, un paio di anni fa ha speso un sacco di soldi per farsele smussare da un famoso chirurgo plastico.