Era fine
settembre e quel giorno aveva iniziato a fare freddo.
Tutti erano
già molto coperti, tranne me e Ralf.
Sedevamo
sulla panchina del Viale Maggiore sorseggiando del liquore al rabarbaro
sottratto senza vergogna dalla casa della nonna di Balimme, dopo il pranzo che
l’anziana signora ci aveva offerto per averle riparato il televisore.
I nostri
discorsi così tipicamente consueti, fluttuavano tra le nostre bocche senza
fretta o esasperazione e non pochi erano i momenti di silenzio in cui
rimanevamo a contemplare le foglie che si alzavano dalle aiuole per
accompagnare le gonne bianche delle ragazze dal passo svelto.
Ralf stava
osservando il calare del sole, che rifletteva luce calda attraverso le sue
sopracciglia bionde sotto le quali le pupille sparivano in due occhi di rame.
Dietro di
lui si agitava in lontananza un uomo con una giacca di jeans, scuotendo due
braccia talmente lunghe che poteva sembrare stesse per spiccare il volo.
Chiamai Ralf
per nome, scuotendolo per attirare la sua attenzione verso il tizio alle sue
spalle, ma Ralf era già morto e il suo corpo si riversò in avanti, rotolandosi ai
piedi della panchina.
Non ricordo
esattamente cosa feci, ma seppur angosciato provai di tutto, sicuramente gli
urlai sulla faccia, lo schiaffeggiai, provai a chiedere aiuto a qualche
passante.
In effetti c’era
parecchia gente in giro, una folla cresciuta a dismisura da un momento
all’altro, ed erano tutti di corsa per quel viale, terrorizzati ed incuranti travolgevano
fioriere, cassonetti, passeggini e persone già cadute.
Non riuscivo
a capire da cosa fuggissero, non riuscivo a capire molto in realtà, neanche
cosa fosse successo a Ralf che solo pochi attimi prima parlava ancora del suo
domani.
Il sole era
già calato ed al suo posto alcuni bagliori rossi dipingevano ad intervalli poco
regolari le facciate dei palazzi ed i tronchi degli alberi, sotto i quali le
ombre sottili dei cappotti spiegazzati tremolavano ed urlavano con differenti
timbri di tonalità.
Anche io
venni travolto e quando si viene travolti può capitare di abbandonarsi all’idea
di essere trasportati involontariamente da una corrente naturale, senza
registrare un eventuale ricordo sul dolore delle costole rotte e degli arti
spezzati o sulla macchia umida del liquore al rabarbaro versato sui pantaloni,
ma sulle immagini frammentate che gli occhi riescono a catturare nel momento in
cui vengono annientati i filtri critici del comportamento personale, dietro i
quali quasi sempre ci obblighiamo a nasconderci.
Perciò prima
di venire inghiottito dalla folla che mi tolse la luce, vidi i vetri rotti
della ricevitoria, poi la grondaia del palazzo con alcuni adesivi incollati sopra,
l’estremità del lampione in ferro battuto con sottili macchie rosse cadute
durante la verniciatura delle ringhiere in alto, poi un balcone al secondo
piano da cui una bambina lanciava petali di geranio e mi guardava come fossi la
superficie di un ruscello appena scorto tra i cespugli.