Lento, placido e goffo, mi si acquattò davanti un bufo.
Ero ancora giovane.
Avevo una folta barba rossa che sfumava in un
cardigan blu con foreste di pelucchi che solitamente strappavo ad uno ad uno
dopo pranzo, quando l’umidità dell’orizzonte mi allontanava dall’idea stucchevole
di impiegarmi in qualunque fatica.
A quei tempi camminavo nelle pozzanghere senza
avere gli stivali buoni, vivevo con i calzini bagnati e con il sudore di giorni
addosso, e sentivo caldo anche se era novembre.
Comprai una pera da un vecchio, la volevo mangiare
di fronte alla palude, senza curarmi di dove finissero i brincelli masticati,
scagliati sovente fuori dalla mia gola a causa della mia perenne tosse.
Mi si avvicinò un bufo e non me ne accorsi subito.
Nonostante i tralicci ed i fumaioli delle
fabbriche fossero lontani, c’era un discreto frastuono; come facevo ad
accorgermi del gracidare e dello schizzare di un bufo? C’era sicuramente
qualche contadino che si stava arando la melma con qualche vecchio trattore a
nafta, e sbatteva cose e ne trascinava altre.
Ricordo che c’era un fumo sottile che mi arpionava
i turbinati ed io avrei dovuto lavarmi il collo.
E poi notai questo bufo che mi guardava, con i
suoi occhi bavosi ed il corpo ricoperto di verruche.
Aveva la stessa espressione di quella gente tarda
di comprendonio, la cui prima impressione è che si debba diffidare a
prescindere, perciò passano la vita a farlo e poi ti guardano minacciosi se un
giorno si accorgono che possiedi il dono della vita.
Il bufo forse si era accorto che stavo vivendo ed
io mi ero sufficientemente accorto di lui.
Per anni mi ero divertito a sbirciare le mie
cugine più grandi, che di tanto in tanto si impegnavano con tutte le loro forze
e con i peli orripilati delle gambe, a sfidare il ribrezzo nel baciare un bufo.
Si, come quelle donne sognatrici delle favole.
Era Carlo del caseificio che glieli portava, ed a
pensarci adesso, non credo che mangerei più una mozzarella fatta da lui. Gli
piaceva mia cugina Katia, e non si capacitava del perché ella preferisse lambire
con le labbra i porri di un bufo, anziché l’acne delle sue guance di
giovanotto.
Il motivo era lampante, come tutte le altre donne
nelle favole, le mie cugine sognavano che al posto del bufo apparisse un
principe a cui dedicare ben più calorose effusioni, o quantomeno, se proprio
non doveva essere un principe, sarebbe andato bene anche un maresciallo, un banchiere
o il giovane trombettista della banda di paese.
Saranno state sicuramente le chiacchiere dello zio
Lorenzo, che ogni sera a cena beveva tre litri di rosso e diventava più
ripetitivo del suo deglutire, quindi o fuggivi o finivi per credere alle sue
divagazioni etiliche.
Diceva sempre che bisogna sporcarsi le mani nelle
cose che ci fanno ribrezzo, perché soltanto in questo modo si può impedire al
futuro di negarci la soddisfazione.
Questo diceva lui, che aveva pulito i cessi per
una vita e ci si era comprato pane, salame ed una Alfasud di seconda mano, che
per paura di rovinare, lasciava ad agonizzare sullo spiazzo davanti casa.
E perciò io credo, a loro modo le sue figlie l’avevano
preso alla lettera, screpolandosi le labbra adolescenti su quella faccia
sgraziata di ruvido anfibio, ma io non lo sapevo ed ero piccolo e curioso di
capire il perché di quegli strilli, allora dopo la scuola mi camuffai dietro il
muretto friabile della stalla e ci vidi loro, Carlo, il bufo, la disperazione e
la fede.
Vidi che piangevano invece di ridere, ed il bufo è
un animale che fa ridere con la sua faccia buffa e bigotta, ma le ragazze strillavano
selvaggiamente, poi si accucciavano a singhiozzare in un angolo perché, potere
dell’ignoranza, ci credevano sul serio a questa storia del principe, poveracce
loro.
E poi chissà, forse immaginavano il loro padre con
le mani sporche di merda, che imbrattava la loro candida conclusione di
giovinezza, incespicando su un sagrato per raggiungere un marito bifolco e
tanti sogni svaniti nel giorno in cui il ribrezzo le vinse in una stalla, ed in
tutto questo sgomento, Carlo delle mozzarelle ne sbirciava abilmente le
sottane.
Io non ci ho mai creduto a questa storia del
ribrezzo.
Io quando parlava lo zio Lorenzo ero in qualche
posto buio della casa, in ginocchio, a nascondere sassi nelle fessure dei muri,
prima che qualcuno venisse a portarmi via dalla mia tranquillità, con una
faccia seria, concreta, di noia e di stanchezza.
Un bufo non mi fa ribrezzo, è buono per far le
burle, per creare spavento, e spesso di questo ci ho riso, ma di baciarlo non
mi è mai venuto in mente.
A me disgustava il lavoro, la fatica, ma poi ci
sono diventato vecchio anche io.
Ho vissuto per rovinare i miei anni, per consumare
la mia giovinezza, per procrastinare una felicità che già avevo, sul mio
cardigan blu che spelucchiavo steso di fronte all’orizzonte.
Sarà che anche io ho affrontato il mio ribrezzo?
Ora che sono lento, placido e goffo, mi rendo conto
che in cambio non ho ricevuto nulla, a parte il collo pulito e le calze
asciutte. Di cui facevo volentieri a meno.