martedì 8 ottobre 2013

Il Bufo








Lento, placido e goffo, mi si acquattò davanti un bufo.
Ero ancora giovane.
Avevo una folta barba rossa che sfumava in un cardigan blu con foreste di pelucchi che solitamente strappavo ad uno ad uno dopo pranzo, quando l’umidità dell’orizzonte mi allontanava dall’idea stucchevole di impiegarmi in qualunque fatica.
A quei tempi camminavo nelle pozzanghere senza avere gli stivali buoni, vivevo con i calzini bagnati e con il sudore di giorni addosso, e sentivo caldo anche se era novembre.
Comprai una pera da un vecchio, la volevo mangiare di fronte alla palude, senza curarmi di dove finissero i brincelli masticati, scagliati sovente fuori dalla mia gola a causa della mia perenne tosse.
Mi si avvicinò un bufo e non me ne accorsi subito.
Nonostante i tralicci ed i fumaioli delle fabbriche fossero lontani, c’era un discreto frastuono; come facevo ad accorgermi del gracidare e dello schizzare di un bufo? C’era sicuramente qualche contadino che si stava arando la melma con qualche vecchio trattore a nafta, e sbatteva cose e ne trascinava altre.
Ricordo che c’era un fumo sottile che mi arpionava i turbinati ed io avrei dovuto lavarmi il collo.
E poi notai questo bufo che mi guardava, con i suoi occhi bavosi ed il corpo ricoperto di verruche.
Aveva la stessa espressione di quella gente tarda di comprendonio, la cui prima impressione è che si debba diffidare a prescindere, perciò passano la vita a farlo e poi ti guardano minacciosi se un giorno si accorgono che possiedi il dono della vita.
Il bufo forse si era accorto che stavo vivendo ed io mi ero sufficientemente accorto di lui.
Per anni mi ero divertito a sbirciare le mie cugine più grandi, che di tanto in tanto si impegnavano con tutte le loro forze e con i peli orripilati delle gambe, a sfidare il ribrezzo nel baciare un bufo.
Si, come quelle donne sognatrici delle favole.
Era Carlo del caseificio che glieli portava, ed a pensarci adesso, non credo che mangerei più una mozzarella fatta da lui. Gli piaceva mia cugina Katia, e non si capacitava del perché ella preferisse lambire con le labbra i porri di un bufo, anziché l’acne delle sue guance di giovanotto.
Il motivo era lampante, come tutte le altre donne nelle favole, le mie cugine sognavano che al posto del bufo apparisse un principe a cui dedicare ben più calorose effusioni, o quantomeno, se proprio non doveva essere un principe, sarebbe andato bene anche un maresciallo, un banchiere o il giovane trombettista della banda di paese.
Saranno state sicuramente le chiacchiere dello zio Lorenzo, che ogni sera a cena beveva tre litri di rosso e diventava più ripetitivo del suo deglutire, quindi o fuggivi o finivi per credere alle sue divagazioni etiliche.
Diceva sempre che bisogna sporcarsi le mani nelle cose che ci fanno ribrezzo, perché soltanto in questo modo si può impedire al futuro di negarci la soddisfazione.
Questo diceva lui, che aveva pulito i cessi per una vita e ci si era comprato pane, salame ed una Alfasud di seconda mano, che per paura di rovinare, lasciava ad agonizzare sullo spiazzo davanti casa.
E perciò io credo, a loro modo le sue figlie l’avevano preso alla lettera, screpolandosi le labbra adolescenti su quella faccia sgraziata di ruvido anfibio, ma io non lo sapevo ed ero piccolo e curioso di capire il perché di quegli strilli, allora dopo la scuola mi camuffai dietro il muretto friabile della stalla e ci vidi loro, Carlo, il bufo, la disperazione e la fede.
Vidi che piangevano invece di ridere, ed il bufo è un animale che fa ridere con la sua faccia buffa e bigotta, ma le ragazze strillavano selvaggiamente, poi si accucciavano a singhiozzare in un angolo perché, potere dell’ignoranza, ci credevano sul serio a questa storia del principe, poveracce loro.
E poi chissà, forse immaginavano il loro padre con le mani sporche di merda, che imbrattava la loro candida conclusione di giovinezza, incespicando su un sagrato per raggiungere un marito bifolco e tanti sogni svaniti nel giorno in cui il ribrezzo le vinse in una stalla, ed in tutto questo sgomento, Carlo delle mozzarelle ne sbirciava abilmente le sottane.
Io non ci ho mai creduto a questa storia del ribrezzo.
Io quando parlava lo zio Lorenzo ero in qualche posto buio della casa, in ginocchio, a nascondere sassi nelle fessure dei muri, prima che qualcuno venisse a portarmi via dalla mia tranquillità, con una faccia seria, concreta, di noia e di stanchezza.
Un bufo non mi fa ribrezzo, è buono per far le burle, per creare spavento, e spesso di questo ci ho riso, ma di baciarlo non mi è mai venuto in mente.
A me disgustava il lavoro, la fatica, ma poi ci sono diventato vecchio anche io.
Ho vissuto per rovinare i miei anni, per consumare la mia giovinezza, per procrastinare una felicità che già avevo, sul mio cardigan blu che spelucchiavo steso di fronte all’orizzonte.
Sarà che anche io ho affrontato il mio ribrezzo?
Ora che sono lento, placido e goffo, mi rendo conto che in cambio non ho ricevuto nulla, a parte il collo pulito e le calze asciutte. Di cui facevo volentieri a meno.